Le mie foto
Voi sapete che in questo sito mi piace inserire le foto che io stesso ho fatto: di bassa qualità e quasi sempre sfocate e storte, ma sicuramente sincere. Non c’è artefazione o fotoritocco perché per me rappresentano dei ricordi che cerco di raccontare a voi che leggete i miei diari.
In pagine come questa ho inserito delle foto di opere d’arte.
Nel museo o nella location in questione si potevano scattare, ma non sono pienamente sicuro del diritto a pubblicarle.
Agli eventuali detentori dei diritti, vorrei precisare che la pubblicazione di queste immagini non ha alcun intento lesivo verso le opere originali ma, anzi, spero suscitino interesse nei lettori per andarle a vedere dal vivo.
Ciò nonostante, se fosse un problema la presenza di queste immagini, segnalatemelo mediante la pagina dei contatti e provvederò a rimuoverle.
Un edificio esemplare…
Posto a pochi passi dall’Opera House, nel quartiere Bjørvika, è quasi impossibile non vedere questo edificio: un parallelepipedo di 13 piani sulla riva della baia che, nella parte alta, sembra chinarsi in avanti verso le acque del fiordo. In basso, con la grafica in stampatello corsivo maiuscolo che caratterizzerà tutta la vostra visita, la scritta “MUNCH“, che di notte si accenderà di un rosso quasi fastidioso, come un segnale di allarme sempre visibile.
Eh si, il palazzo del Museo Munch, o Munchmuseet, è davvero particolare e devo ancora decidere se mi piaccia oppure no. Di sicuro ha un impatto non da poco, alle spalle dell’Operastranda (vedi il box in pagina per saperne di più).
Il Museo è lo scrigno che contiene il lascito di Edvard Much alla città di Oslo, ovvero un piccolo tesoro di opere, tra dipinti (circa 1.100), studi (circa 4.500 tra disegni e acquerelli), 18.000 opere grafiche e molti libri. Infatti nel 1944, alla sua morte, l’artista non aveva eredi a cui lasciare le sue opere e la sua attrezzatura, così decise di donare tutto alla sua città.
Chiaramente, non tutto fa parte dell’esposizione, che però ha l’ambizione di voler rappresentare nel modo più completo possibile l’arte di Munch, il suo pensiero, la sua visione della vita e le tecniche da lui utilizzate per realizzare i suoi capolavori.
Alla fine della visita, seguendo il percorso idealmente progettato dal museo, vi sarà chiaro perché questo autore intraprendente e visionario sia considerato il pioniere dell’espressionismo e del modernismo.
Ma c’è di più: questo edificio di 13 piani è il più grande museo al mondo dedicato a un solo artista. È alto 60 metri e chi lo ha progettato ha messo al primo posto la sostenibilità: i pannelli ondulati di alluminio riciclato che avvolgono il palazzo in cemento armato con diversi gradi di trasparenza hanno lo scopo di schermare e riflettere i raggi solari creando un benessere termoigrometrico stabile all’interno degli ambienti museali. Questo gigante, contrariamente a quanto il suo aspetto burbero potrebbe suggerire, produce meno della metà delle emissioni di altri edifici di pari dimensioni.
Forse è per questo obiettivo di sostenibilità che, intenzionalmente, non sono stati previsto parcheggi per auto ma un bike parking con 100 posti e la vicinanza alla stazione di Oslo S, il più grande snodo dei trasporti pubblici della città.
Gli spazi ampi, he a volte vi sembreranno sprecati, rispecchiano quella filosofia che piace a noi di Lallero, ovvero di prendersi il giusto spazio e un tempo opportuno (il Kairos o καιρός greco) per fare nostra l’esperienza che stiamo vivendo. E quale esperienza offre più stimoli se non un viaggio attraverso l’arte?
…e un museo “da urlo”!
L’Urlo è il dipinto più famoso di Munch, ma non è “tutto” Munch. E viaggiando in questo museo lo si scopre con i propri occhi e con i propri sensi. Edvard Munch visse dal 1863 al 1944 e la sua infanzia fu costellata di esperienze legate alla malattia, al lutto e a una sofferenza interiore che i suoi studi gli permisero di esprimere pienamente nell’arte.
Il suo malessere interiore diveniva avanguardia e visione, tanto da meritarsi la fama di essere uno dei più grandi artisti della Norvegia, pur osteggiato in una parte dell’Europa: la Germania nazista definì le sue creazioni “arte degenerata” mettendole al bando.
Camminando tra le sue opere non è possibile imbrigliare la sua arte in schemi e definizioni: Munch era istintivo, ma anche preciso in ciò che voleva esprimere. Dove le forme perdono di definizione, ti arriva addosso il sentimento che c’era dietro a ogni pennellata e a ogni tratto.
C’è lo studio del corpo umano, splendido in tutte le sue forme, che ispira fierezza, imbarazzo, sensualità o solitudine. Nei quadri di Munch, ciò che il corpo esprime è sempre più importante di ciò che appare.
C’è l’accostamento alla morte, che pervade le vite degli uomini ed è liberazione, ma anche tristezza, tanta tristezza per coloro che vegliano chi è malato o che attendono nella sala vicina mentre un loro caro sta lasciando questo mondo. Nessuno è preparato di fronte alla morte, e tantomeno lo era Munch, che non ha paura di esprimere la solitudine e l’angoscia che provava usando tecniche di chiaroscuro che formano ombre implacabili sulle vite dei suoi personaggi.
Poi c’è il movimento, le linee diagonali che guidano l’occhio in percorsi visivi all’interno della cornice. Istanti che raccontano storie. Munch amava il cinema e cercava spesso di riproporre nelle deformazioni delle immagini la percezione del mondo in movimento. A volte le figure ritratte sono così intense drammatiche da afferrare l’osservatore per portarlo con sé in un viaggio oltre le due dimensioni.
E infine, mi sento di fare un doveroso passaggio sullo studio di Munch rispetto al tema del “genere”. Ai suoi tempi stavano nascendo dibattiti e nuove idee rispetto all’uguaglianza, l’amore libero e l’identità di genere. Secondo Munch la percezione del genere nella società aveva la colpa di modellare le vite delle persone. Le sue immagini riflettono le contraddizioni e gli stereotipi del tempo, fino ad arrivare a una maturazione della sua arte che, piuttosto che voler presentare ritratti precisi, si volse a “catturare l’umanità”, come disse una volta. Ne emergono una serie di emozioni e di sensazioni che sono proprie dell’animo umani indipendentemente dalle definizioni nelle quali veniamo identificati dal mondo.
Le grandi opere
Quando esci dalle sale espositive dedicate ai dipinti di Munch ti chiedi cos’altro potrà emozionarti allo stesso modo e cominci a darti una risposta quando, salendo con la scala mobile, realizzi che 2 interi pani sono stati uniti per ospitare alcune opere che il titolo stesso della mostra ti introduce: Edvard Munch Monumental.
Qui, nella sala ricavata dall’eliminazione di un soffitto, sono esposti due enormi quadri che Munch realizzò per dare ispirazione ai giovani: Il Sole (The Sun) e I Ricercatori e La Montagna Umana. La prima misura 4,55 per 7,80 metri e presenta una metafora di tutto ciò che resta in eterno e sopravvive al tempo, come la natura che sembra benedetta dai raggi del sole, fonte di vita. Questo quadro è luce pura, un inno alla vita. Per questo venne messo nell’aula magna dell’Università di Oslo.
Per quanto riguarda la seconda, parliamo di un’opera che misura circa 50 metri quadrati. Quando ci fu il trasferimento, nel 2021, dal vecchio museo a questo nuovo edificio, il suo trasferimento fu la parte più difficile, secondo quanto raccontato dai curatori della mostra: dopo essere stata impacchettata, è stata stratta dal vecchio museo passando per il tetto, caricata su un camion fino a un’imbarcazione che l’ha portata al nuovo museo navigando sul fiordo da cui è stata prelevata da una gru e inserita nella sede attuale mediante una fessura di 7 metri aperta nel fianco del museo che successivamente è stata sigillata.
La terza opera ospitata nella sala delle opere monumentali è “La Montagna Umana“, creata da Munch nel 1909 dopo una crisi emotiva e la permanenza in un ospedale psichiatrico. Nell’immagine c’è tutto il dramma e la forza della sua lotta contro la depressione: la montagna è simbolo della malattia mentale su cui spicca lo sforzo dell’uomo per emergere. Accanto al quadro il museo espone i bozzetti e gli studi preparatori di Munch, spiegando la “tecnica dell’imposto”, ovvero gli spessi strati di vernice che formano una trama che viene percepita in 3 dimensioni dall’occhio dell’osservatore. Grazie a questo artificio, la sagoma dell’uomo sembra emergere dalla montagna, come segno della vittoria dell’uomo sulla malattia.
L’arte che incontra il digitale
Il trasferimento di tutte le opere di Edvard Munch nel nuovo museo è stata l’occasione per catalogare definitivamente e digitalizzare l’intera collezione per la prima volta nella storia. Ciò che ne risulta è un patrimonio dematerializzato senza precedenti.
Ma non è finita, perché l’immagine era importante anche per l’artista: sembra che, un po’ per arte, un po’ per studio, un po’ per diletto, fosse appassionato di fotografia e che molto spesso usasse se stesso come soggetto delle sue foto.
L’esposizione The Experimental Self è un compendio di queste immagini inserite in un percorso digitale accessibile in una sala dedicata. Attraverso alcuni scatti si potrà accedere alla casa di Ekely, dove Munch visse diversi anni sperimentando la pittura di paesaggi.
Dentro l’urlo
Diario di viaggio
Non vi nego che, quando entrai per la prima volta in questo museo, mi chiesi a cosa servisse tutto quello spazio, dal momento che di Munch conoscevo solo The Scream, e cioè L’Urlo, che in lingua originale si chiama Skrik. Che poi, “conoscere” non è il verbo giusto perché quando finalmente ti trovi faccia a faccia con un’opera si aprono infinite vie alla tua mente per navigarci dentro. E in questo caso, la situazione è stata anche peggiore, perché non mi ero preparato abbastanza per scoprire che in realtà di “urli” ce ne sono diversi: non è un quadro ma un viaggio nelle emozioni fatto di passi successivi.
“Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue.
Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata.
Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco.
I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.”
Nel 1891 dipinge “Disperazione”: non c’è l’urlo in primo piano che sarebbe diventato famoso, ma a ben vedere, era già chiaro nella sua mente che a urlare non era un individuo, ma la natura intera, il cielo, lo sfondo… l’intero universo!
La prima versione del quadro arrivò nel 1893, nella forma di un pastello su cartoncino, per realizzarne poi fino al 1910 altre tre versioni con tecniche e materiali diversi, dal pastello su una tavola alla tempera sul pannello.
La versione del 1893 è esposta presso la Galleria Nazionale di Oslo, mentre nel Museo Munch sono esposte le altre 3 versioni: un disegno, un dipinto e una stampa.
L’esperienza che si offre al visitatore è dinamica: si entra in un box formato da 4 pareti diagonali rispetto alla sala più grande e il colore dominante diventa il nero: su una parete c’è la spiegazione del quadro, mentre sulle altre 3 ci sono dei pannelli scorrevoli che, a turno ogni mezz’ora, mostrano una delle opere per un tempo limitato per poi cedere il posto alla successiva.
Questo viene fatto perché nessuna di esse può essere esposta in modo permanente per preservarne l’integrità dei materiali e la fedeltà dei colori. Mezz’ora di esposizione per ogni versione e poi torna a chiudersi nel buio, nell’attesa che tocchi di nuovo a lei.
La stampa appare più volte rispetto al dipinto e al disegno perché è più resistente degli altri alla luce. Il cartone e la carta, invece, sono materiali fragili che rischiano di consumarsi o di ingiallirsi col tempo e l’esposizione prolungata.
Per ciascuna opera sono stati personalizzati i livelli di illuminazione, ossigeno, temperatura e umidità.
Anche se l’obiettivo finale è preservarne l’integrità dei manufatti, l’effetto finale è un’esperienza che fa battere il cuore più velocemente: sapere di avere un tempo limitato, da condividere con le altre persone in fila che cercano di avvicinarsi e rubare una foto, dà quel tocco di provvisorietà e ansia che senza volerlo ti proietta nell’atmosfera stessa del quadro e fa provare anche a te, per un istante, la sensazione di essere travolto da quella natura che urla senza possibilità di appello.
Forse non tutti sanno che la famosissima emoticon dello smile che urla, entrato oramai nell’alfabeto dei nostri messaggi digitali, fu ispirato proprio dall’Urlo di Munch.
Le regole del museo
Come ogni organizzazione che vuole preservare la qualità del proprio servizio, anche il Museo Munch ha delle regole. Eccovi le principali cose da sapere.
Mettete in conto che, per garantire una visita significativa e per preservare l’integrità delle opere, il museo ammette un numero massimo di persone nelle sale. Quindi c’è un’attenzione particolare alla gestione dei flussi di visitatori.
Questo potrebbe voler dire che, presentandosi in biglietteria, vi venga chiesto di attendere lo slot di ingresso successivo, che normalmente vi richiederà un’attesa di dai 15 ai 30 minuti. In bassa stagione, chiaramente, c’è una bassissima probabilità che questo avvenga.
Nel museo ci sono bar e ristoranti, ma è assolutamente vietato entrare nelle sale espositive con del cibo o delle bevande.
È possibile scattare delle foto, ma senza il flash.
Non si possono introdurre cappotti, giubbotti o zainetti, sia per l’ingombro, sia per l’umidità che si portano dietro, specialmente in inverno quando la pioggia è quasi una costante. Niente paura: come in tutti i musei di Oslo, il guardaroba è gratuito e permette di lasciare i soprabiti appesi alle stampelle, mentre per gli effetti personali ci sono degli armadietti (sempre gratuiti) dove è possibile impostare una combinazione temporanea. Per sicurezza, fatevi una foto dell’armadietto che state usando: vi sarà più facile ritrovarlo qualche ora dopo, alla fine della visita.
Non è possibile accedere alle sale con i passeggini, ma se i genitori si recano al “parcheggio dei passeggini”, troveranno dei marsupi per bambini da poter utilizzare.
Infine – sembra ovvio ma, se viene specificato all’ingresso del museo, tanto ovvio non è – non è possibile camminare per le esposizioni con i rampini che si mettono sotto le scarpe per non scivolare sul ghiaccio.
Attenzione: le audioguide sono disponibili solo in norvegese, inglese, francese, tedesco, giapponese, cinese e nella lingua dei segni (che, ovviamente, non è la LIS utilizzata in Italia: la lingua dei segni cambia di Paese in Paese perché è intimamente legata alla cultura locale).
Non solo Munch
Anche se Edvard Munch è il protagonista assoluto e indiscusso di questo museo, nei piani più alti dell’edificio si può viaggiare tra altre atmosfere moderne e d’avanguardia, a cui Munch ha spianato la strada nei piani inferiori.
Oltre alle opere di Munch, infatti, il museo espone arte contemporanea di livello mondiale grazie a mostre temporanee che si rinnovano continuamente conferendo alla visita un aspetto sempre nuovo per chi torna dopo un po’ di tempo. Tra i vari autori, conquistano un posto d’eccezione i vincitori dell’Edvard Munch Art Award.
L’ultimo piano dell’edificio, infine, ospita un ristorante con vista panoramica su Oslo e il suo fiordo.
Il progetto Operastranda
Tra l’edificio dell’Opera House e quello del Museo Munch c’è un tratto di lungomare affacciato sul fiordo di Oslo che ha una storia da raccontare.
A metà del XX secolo questa era la sede del cantiere navale più grande di tutta la Norvegia. In tempi più recenti, essendo proprio di fronte a una parte vivace e frequentata di città, si decise di riqualificare questi circa 100 metri di costa per farne un litorale che fosse vivibile da tutti i passanti e, cosa più importante, realizzato interamente in modo sostenibile.
Fu così che la sabbia venne prelevata dal vicino Drammensfjord, la pietra estratta dalle cave locali e l’intera ristrutturazione non impiegò neanche un metro cubo di combustibile fossile. Inoltre, si misero in atto soluzioni e misure per ripristinare e proteggere la vita biologica marina dove prima c’era lo scarico del cantiere.














