L’angolo degli otaku
Dillo con i Kanji
Ci sono traduzioni ed etimologie che vanno accettate con fede senza farsi troppe domande, altrimenti non se ne esce! Uno di questi casi è l’origine del nome di “Kobe”, che in kanji si scrive così:
神 戸
神 – Il primo kanji, “ko“, ha diversi significati, come “lago”, “tigre”, “tartaruga” o addirittura “portare la felicità”.
戸 – il secondo kanji si pronuncia “be“ e significa “porta”.
In questo caso, quindi, non c’è una traduzione univoca, ma il nome va contestualizzato con la storia e la tradizione del posto. Se, geograficamente parlando, la traduzione “porta del lago” avrebbe più senso delle altre, i kanji assumono una diversa interpretazione quando si associa la città al suo passato di crocevia del commercio. Diventa così una sorta di “porta degli dei“.
Come vi ho detto anche per altre località del Giappone, nei cartelli informativi per le vie della città potreste trovarla scritta così: 神戸市. In questo caso la lettura è Kobe-shi e il terzo kanji indica che il nome si riferisce a una “città”.
La porta degli dei
La storia di Kobe la vede assumere l’importante ruolo di punto di connessione tra il Giappone e il resto del mondo conosciuto, nascendo come semplice villaggio di pescatori e divenendo un porto nevralgico e trafficato situato nella regione del Kansai, sull’isola di Honshu.
Per questa sua centralità e per la sua importanza storica, viene chiamata anche “porta degli dei” (vedi la spiegazione dei kanji a inizio pagina).
Nel 1180, per soli 6 mesi, Kobe fu la capitale dell’impero per seguire, come era costume, gli spostamenti di Antoku, 81° imperatore del Giappone.
Dato il suo ruolo di passaggio, molto edifici risentono di contaminazioni architettoniche in stile occidentale che testimoniano il carattere cosmopolita della città, sviluppatosi soprattutto nei primi anni del Novecento.
Se avete visto lo straziante capolavoro di Isao Takahata, “Una tomba per le lucciole“, siete a conoscenza degli effetti devastanti dei bombardamenti americani della Seconda Guerra Mondiale, che costarono la vita a quasi 9.000 abitanti portando ovunque la distruzione e la recessione.
Cinquant’anni dopo, il 17 gennaio 1995, a mettere in ginocchio Kobe e i suoi abitanti fu il terribile terremoto di Hanshin-Awaji, che causò 4.571 vittime e lasciò senza casa 236.899 persone. Quel disastro fu l’ennesima prova di coraggio per una città più volte ferita ma che, una volta di più, fu capace di rialzarsi in piedi e ripartire.
Oggi, tra i tenti appellativi e i tanti meriti, si ritrova a essere conosciuta come la città della carne più costosa al mondo. Potevo non provarla? Per i dettagli, ti rimando al box in pagina.
Per le priorità che ho scelto di darmi in questa prima visita in Giappone, ho sottovalutato alcune cose, ma per quanto mi ha colpito Kobe e la sua atmosfera, mi sono ripromesso di tornarci e di dedicarle almeno un paio di giorni. In particolare, mi ha colpito molto la parte naturalistica, il mare, le montagne e l’attenzione a rendere ognuno di questi ambienti una piacevole esperienza per tutti.
Per avere un’idea più ampia del susseguirsi dei fatti storici e del ruolo dei personaggi citati in queste pagine, c’è un apposito articolo che tratta la storia completa del Giappone!
La scheda della città
- Nome: Kōbe-shi – 神戸市
- Regione: Kansai
- Prefettura: Hyōgo
- Superficie: 557 km²
- Abitanti: 1.526.639 (dati 2019)
- Densità: 2.740,73 ab./km²
- Altitudine: 9 m s.l.m.
- Nome abitanti: Kobejin (in Italiano: Kobesi)
- Prefisso: 78
- Gemellaggi: Seattle, Marsiglia, Rio de Janeiro, Tianjin, Riga, Brisbane, Filadelfia, Barcellona, Cadice e Haifa
Le esperienze principali di Kobe
Per la trasparenza che ho sempre voluto mantenere con voi viaggiatori, ti premetto che mi sono fermato a Kobe meno di un giorno perché per me era una tappa “tecnica” tra Hiroshima e Kyoto a priorità minore (la pianificazione del viaggio sulla base delle priorità è uno dei metodi che dovrebbe esserti familiare se hai letto il libro del Metodo Lallero).
Il mio obiettivo principale era fare la conoscenza del manzo più famoso al mondo, quindi prendi i miei consigli come quelli di qualcuno che, non avendo avuto il tempo materiale per fare “tutto”, si è basato esclusivamente sui propri gusti e le proprie simpatie. Ecco perché troverai spesso, in questa pagina, frasi come “cosa avrei volto fare…” contrapposte a “cosa sono riuscito a fare…“.
Zona del porto (Kobe Harborland)
Col bel tempo è un “must”: ampi spazi, vista sulla baia con lo spettacolo degli aerei che atterrano sulla pista in mezzo al mare, posti vari e praticelli in cui sedersi per riposarsi un po’ e locali dove prendere qualcosa da bere o fare uno spuntino.
C’è la famosissima scritta “Be Kobe” davanti alla quale è d’obbligo fare una foto, l’imponente Cruise Terminal con tanto di cappella per i matrimoni, la Kobe Tower con la terrazza panoramica, la ruota panoramica che rende iconico il lungomare, il Museo Marittimo, il Kawasaki Good Times World, dedicato al progresso tecnologico e alla celebrazione del celebre brand che ha il quartier generale sia a Kobe che a Tokyo.
Oltre a luoghi per procacciarsi cibo, divertimento e relax, questa zona custodisce anche un memoriale a cielo aperto, ovvero il Parco del Memoriale del Terremoto; è a destra del molo con la scritta “Be Kobe”, mettendosi con le spalle al mare: ve lo dico perché potreste passarci davanti e neanche accorgervene. L’ingresso è libero e si tratta di una piccola zona circoscritta del molo che è stata lasciata nelle condizioni di distruzione come fu ridotta dal terremoto del 17 gennaio 1995. La zona urbana che lo circonda è nota come Parco Meriken ed è un’oasi di tranquillità dove ci si più fermare qualche minuto e stare a osservare le navi che entrano ed escono dal porto.
Parco di Nunobiki
Il Parco di Nunobiki è una serie di sentieri e posti panoramici che, alle spalle della stazione di Shin-Kobe, si erpica sul crinale del Monte Rokko (Rokko-san) che affaccia verso il mare. Una funivia consente di salire lungo il pendio meridionale fino alla terrazza panoramica del cosiddetto Herb Garden dove, tra ristorazione e souvenir, si può iniziare la passeggiata per tornare a valle. La linea è spezzata dalla stazione intermedia di Kaze.
In alto c’è un simpatico pediluvio a disposizione degli escursionisti: dovrebbe essere a beneficio di chi si è fatto la strada in salita dalla stazione, ma il più delle volte è occupato da turisti freschi freschi che sorseggiano il vino locale…
La vista su Kobe e sulla baia è molto bella e – dicono – lo è ancora di più di notte, ma questa è un’informazione che potrà verificare solo chi decide di pernottare in città.
Se non hai modo o non hai tempo per salire fino in cima, c’è l’alternativa “rapida”: dalla stazione di Shin-Kobe, esci al piano terra (segui l’indicazione per i coin lockers e la metro), e vai a sinistra per il sottopasso che ti porterà all’imbocco di un sentiero facile facile che è lungo 400 metri in salita. A fronte di un minimo di fatica, sarai premiato dalla vista delle cascate di Nunobiki. Non ti aspettate le Marmore: l’atmosfera è più quella delle cascate lucane di San Fele, se sai a cosa mi riferisco, un bellissimo posto con un’atmosfera rilassante, ma non spettacolare. La cascata più alta è formate da 4 salti di cui il più alto è di 43 metri. Queste cascate, anche se piccole, hanno ispirato l’arte giapponese come dipinti e poesie.
Portati una maglietta di ricambio: alla fine del sentiero, prima del sottopasso della stazione, c’è un bagno pubblico dove ricomporsi e cambiarsi (chiaramente, mi riferisco all’estate, quando per asciugarti bastano 3 passi sotto il sole).

Quartiere di Kitano-Cho
Questo distretto nella zona nord di Kobe si articola intorno alla pittoresca Kitano street. L’oggetto di una eventuale visita sono le case, chiamate “ijinkan“, che appartennero ai commercianti occidentali nel periodo Meiji che, utilizzando la città come porto di scambio per le merci, vi stabilirono le sedi della propria attività o le proprie abitazioni. Tra le abitazioni caratteristiche che si possono visitare spiccano Weathercock House, residenza del mercante tedesco Gottfried Thomas, e Villa Moegi, residenza del console statunitense Hunter Sharpe, entrambe risalenti al primo decennio del 1900.
Ora parte il Maurizio-pensiero, quindi non si arrabbi nessuno per l’opinione non richiesta ma che, come sempre, vi darò: a noi occidentali può fregarcene il giusto di andare in estremo oriente a vedere le case in stile occidentale arredate dagli occidentali che si stabilivano in oriente… per onorarne il carattere storico (se ci avanza del tempo) potrebbe bastare una passeggiata per vederle da fuori oppure, unendo l’utile al dilettevole, andarci a prendere un caffè (è sempre l’ora del caffè!) presso lo Starbucks di Kitano che è ospitato proprio in una “ijinkan” del 1907 (su Google Maps impostate “Kobe Kitano Starbucks Ijinkan” e lo troverete senza problemi).
Ikuta-Jinja
Risalente al 201 d.C., questo piccolo santuario shintoista è tutto in legno rosso e dista pochi minuti a piedi da Ikuta Road, la via piena di ristoranti di carne di Kobe, quindi potresti ritagliarti il tempo di una visita prima o dopo il pasto, se hai prenotato in uno di essi. Non lasciarti ingannare dalle apparenze: sembra a tanti altri templi, eppure è uno dei più antichi del Giappone con i suoi 1800 anni di storia: tutto intorno a esso è pieno di siti storici legati all’imperatrice Genmei, quarantatreesima imperatrice del Giappone e quarta donna sul trono.
Se ti piacciono le foto a effetto, sappi che qui c’è un piccolo tunnel di torii rossi sullo stile del più famoso Fushimi-Inari di Kyoto. Un altro simbolo del santuario è il grande albero di canfora che introduce al boschetto attiguo, dove c’è una commemorazione della grande battaglia di Ichi-no-Tani che ebbe luogo nei pressi del santuario. La divinità a cui è dedicata è la kami Wakahirume, sorella di Amaterasu, colei che fa nascere tutto ciò che è giovane e vitale.
Il santuario è associato da sempre alla fortuna per tutta la popolazione: protesse, ad esempio, il clan Heike durante le guerre civili, superò illeso i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, offrì riparo agli abitanti di Kobe dopo i terremoti e svolse un ruolo importante per la tradizione della produzione del sakè. Lo testimoniano le targhe all’ingresso, che ricordano tutti gli imperatori che sono venuti in visita.
Nankinmachi
Tra la stazione di Motomachi e il porto c’è un distretto composto da una serie di vie colorate e rumorose, che si sente da lontano per il profumo di cibo cinese che emana! Si tratta di Nanichinmachi, ovvero la zona intorno a Nankinmachi square, che ospita chioschi di street food, negozi e ristoranti in stile Chinatown.
La presenza di una zona del genere in una città moderna giapponese esprime l’apertura storica di Kobe alle altre culture venute dal mare. Avrei voluto provare “uno di tutto”, ma avendo prenotato un pranzo a base di carne di Kobe non ho voluto rovinare quel senso di fame che mi portavo da Miyajima… motivo in più per tornare a Kobe!

Osservatorio del Municipio
Vuoi regalarti una vista della città totalmente gratis? Esci dalla stazione di Sannomiya e recati al Palazzo del Municipio di Kobe: puoi salire ogni giorno, fino alle 22.00, all’osservatorio del 24° piano!
Potresti approfittarne per abbinarlo alla visita del Kobe City Museum, poco distante, che offre una ricca collezione di elementi per comprendere la storia e la cultura della città.
Tetsujin 28-Go
Questo non cercarlo nelle guide perché non lo troverai: ho recuperato anch’io le informazioni per puro caso.
Tra il 1956 e il 1966 Mitsuteru Yokoyama diede vita a un manga che vedeva per protagonista il robot Tetsujin 28 o, come venne ribattezzato nella trasposizione televisiva, Super Robot 28. Yokoyama era nato a Kobe ed era rimasto legato alla città: in suo onore venne realizzata una statua del robot alta 18 metri e totalmente in metallo (il peso si aggira sulle 50 tonnellate).
L’installazione voleva essere soprattutto un regalo a Kobe, che usciva martoriata dal terremoto del 1955: la statua, con la sua imponenza, rappresentò per i cittadini la grande resilienza del popolo kobense.
Questa è una di quelle cose che “avrei voluto vedere” ma che non sono riuscito a inserire nella mia visita: per arrivarci è necessario raggiungere con il treno regionale la stazione di Shin-Nagata, che purtroppo non è sulla rotta dello shinkansen. Se ti capita di andarci prima di un mio ritorno in terra nipponica, mandami una foto, che te la pubblico con i crediti!
Arima Onsen
Qui siamo nella rubrica “se hai tempo a disposizione“: tra le montagne, nei pressi di Kobe, c’è una rinomata località termale che ha la fama di essere tra le tre migliori sorgenti termali del paese. Le acque di Arima Onsen sono note per i loro benefici per la salute, in particolare per le malattie della pelle. La caratteristica della località è che, col proprio yukata, si possa andare presso le altre piscine anche se non si è ospiti del particolare ryokan. In realtà non so se sia proprio così facile passare da una sorgente all’altra, né quanto costi… per esperienza so per certo che prima andrà fatta una buona ricerca per capire chi lascia entrare persone tatuate e chi no.
Per saperne di più, il sito ufficiale è arima-onsen.com.
L’amicizia tra Kōbe e l’Italia
Sebbene nessuna città italiana figuri nell’elenco dei gemellaggi, c’è un filo rosso (sì, se ti stai chiedendo se questa immagine sia un richiamo allo shintoismo e a Your Name, sei sulla strada giusta) che unisce Kōbe ad alcune località del nostro Paese.
Il primo filo che parte da qui è teso verso la città di Terni per un motivo che non immaginereste mai: entrambe le città hanno una predilezione per la figura di San Valentino. Nel parco di Nunobiki c’è addirittura una statua (“Maternità” del 1993) donata dallo scultore ternano Aurelio de Felice.
Il secondo filo lega la baia di Osaka alla Baia di Napoli grazie all’amicizia tra Kōbe e Torre del Greco. In questo caso la ragione scatenante è la lavorazione del corallo, arte importata nella città del Kansai dagli artisti della città campana. Per questi rapporti, Torre del Greco è considerata la città simbolo dei rapporti commerciali, culturali e diplomatici tra Italia e Giappone, tanto che, nel 1921, venne visitata dal principe ereditario Hirohito.
Faccio conoscenza col manzo di Kobe
Diario di Viaggio
Se hai letto altre mie pagine, lo sai: pur rispettando le opinioni e le convinzioni di tutti, mi ritengo un “onnivoro di buon appetito”, quindi per me parte dell’esperienza di viaggio è assaggiare ciò che la cucina locale mi offre. In questa pagina del mio Diario ti parlerò di manzo, quindi spero di non offendere nessuno che abbia compiuto una scelta etica o che abbia un credo religioso che preveda l’assenza di carne dal proprio menù. Se leggerai le prossime righe, però, spero di trasmetterti il senso di come anche il consumo di un certo cibo sia legato alla storia e alla cultura di una terra.
“Wa-Gyu” significa “manzo giapponese” e, per raccontare la mia esperienza, non posso non partire dal presentarti il manzo di Kobe!
Storicamente, l’influenza del buddismo e il credere nella reincarnazione ha spinto i giapponesi a non abusare del manzo. Fu l’imperatore Mutsuhito a dare al Giappone una spinta al cambiamento accogliendo idee e usi provenienti dall’occidente. Grazie anche ai commercianti, quindi, si rivalutò quel tipo di carne che aveva una marezzatura particolarissima e accentuata, ovvero che appariva quasi “marmorizzata” dalle venature di grasso che non rimanevano esterne al muscolo ma vi penetravano a fondo e in quantità. Una volta a contatto col calore, queste venature di grasso si sciolgono dando alla carne un sapore unico morbido e succoso.
Di ciò che sto per dire non ho trovato conferma da nessuna parte, ma mi sono fatto un’idea che non mi sembra così strampalata: nel chiedermi perché il gusto della carne giapponese tenda a una tipologia ricca di grasso, ho immaginato le carni già macellate e portate dai commercianti per mare: il processo di deterioramento durante i giorni di navigazione senza celle frigorifere sarebbe stato più rapido se la carne non fosse stata “protetta” da quella che potremmo considerare un’imbottitura naturale costituita dal grasso stesso. E se i gusti nascono in base a ciò che si ha a disposizione (aggiungendo che, se ogni mondo è paese, quello che arriva da fuori ci sembra sempre migliore), mi viene l’idea che i gusti in fatto di carne dei giapponesi abbiano risentito di questo. A rafforzare questa mia personalissima ipotesi è che in altri posti del Giappone ho trovato anche sashimi di carne magrissima e di altre razze di animali, mentre guardacaso la zona di Kobe è proprio quella che accoglieva i commercianti esteri (ne è testimonianza il quartiere di Kitano-cho). Comunque, ribadisco che è solo una mia ipotesi.
Compenso l’ipotesi con un fatto che non c’entra niente, ma almeno è certa: il termine giapponese per l’industria della carne destinata all’alimentazione, che comprende l’allevamento e la macellazione è “shokuniku sangyō” (dai semplicissimi kanji: 食肉産業). Pensa che figurone farai buttando là questa informazione quando sarai a tavola con i tuoi amici (se non ti picchiano prima)!
Tornando a Kobe, la comunità degli allevatori di Kobe, con un occhio attento alla tradizione, è riuscita a distinguersi per la qualità dei processi di allevamento del manzo, al punto tale da ritagliarsi una nicchia di fama mondiale: dopo aver messo un freno alla contaminazione occidentale delle carni giapponesi, dal 1983 ha stabilito regole ferree di produzione definendo le (poche) tipologie di bovino ammesse a diventare il vero Wagyu giapponese. In questo modo la dicitura “carne di Kobe” è diventata ovunque un sinonimo di eccellenza.
Ecco alcune cose importanti da sapere per non incorrere in “fregature per turisti”: il Wagyu viene classificato sulla base di alcuni criteri, primo tra tutti il famigerato livello di marezzatura. La scala utilizzata va da A1 (qualità e caratteristiche più scarse) ad A5 (la più pregiata e cara in assoluto). Una bistecca di Kobe può costare tra i 200 e i 500 euro al chilo e tagli più pregiati come il filetto o il ribeye possono arrivare a 600-1000 euro al chilo.
Ecco invece alcune cose importanti da sapere se non si vuole restare delusi dall’esperienza di assaggio: se sei abituato al bisteccone in stile fiorentina, scordatelo! La carne di Kobe si presenta già priva dell’osso e viene cotta in piccoli pezzi e gradualmente. Questo per una serie di motivi, tra cui:
- cuocendo i pezzi man mano che il piatto si libera, è possibile mangiarli caldi ed evitare che una parte si raffreddi o risulti troppo cotta;
- dato l’alto livello di marezzatura, il grasso deve avere il tempo di sciogliersi e, se i pezzi fossero troppo grandi, l’esterno risulterebbe bruciato e l’interno crudo.
- (quasta l’aggiungo io): per quello che costano, quei 100 grammi di carne devono durare tanto! Quindi è giusto che il cuoco me li porga un pezzetto alla volta!
C’è infine una leggenda metropolitana che afferma che, per convincere le mucche a trasferire il grasso nel muscolo, ci siano vere e proprie squadre di massaggiatori che coccolano i bovini mentre sono al pascolo e ascoltano musica. In molti mi hanno detto che si tratti di una bufala… in molti, ma non tutti! In questi casi tendo a credere alla storia che mi piace di più, tanto non faccio del male a nessuno se immagino una mucca con le cuffie mentre il personal trainer parte col massaggio shatsu!
La mia storia col manzo di Kobe inizia qualche settimana prima della partenza per il Giappone: passando per la città non potevo esimermi da un’esperienza culinaria che solo qui potevo vivere, quindi cominciai a inviare mail per chiedere disponibilità nei ristoranti raccomandati dalla comunità di internet (se vai a 9.700 km di distanza ti devi fidare).
Ingenuamente, credevo che ci fosse molta disponibilità per un coperto il 23 agosto all’ora di pranzo… ingenuamente! Dovetti arrivare al quinto tentativo per trovare una disponibilità. C’è da dire che la rigidità nipponica non mi era d’aiuto: dopo aver ricevuto risposta che per le 13.00 non c’era disponibilità, al quinto ristorante provai a fare una domanda meno diretta del tipo “E per che ora ci sarebbe un posto?” mi vidi rispondere “Per le 13.15“. Fu uno di quei momenti in cui non apprezzai troppo la precisione: un ristoratore italiano ti avrebbe comunque accettato la comunicazione ingannando quel quarto d’ora con un aperitivo oppure ti avrebbe proposto lui stesso l’alternativa, ma in Giappone (e non lo dico con malizia o sprezzo, intendiamoci!) vale spesso la regola che se non fai la domanda giusta, non avrai la risposta che cerchi.
Raggiunto il ristorante, quel fatidico 23 agosto, mi scontrai con due altri problemi tutti giapponesi: la difficoltà di interpretare gli indirizzi, che sembrano degli indovinelli pieni di riferimenti, e il fatto che averlo trovato non è sufficiente perché in uno stesso palazzo possono esserci anche 5, 8 o 10 ristoranti e quindi devi leggere bene tutte le targhe “piene di scritte” all’ingresso per capire a che piano salire e a che porta suonare.
Per quanto mi fossi preparato al caldo d’agosto e mi fossi portato un cambio per non fare troppo schifo, facevo comunque schifo perché sotto quel sole bastavano 10 passi per avere già le croste di sale sulla maglietta. Devo dire che, nonostante il mio imbarazzo, il personale del ristorante non ha fatto una piega.
Avevo chiesto un posto al bancone (che poi è quello che cercano di darti se sei da solo per non occupare un intero tavolo) e venne subito a presentarsi il “mio” cuoco… sì, perché l’esperienza della degustazione del manzo di Kobe inizia con delle coreografie del tuo cuoco personale che si dedicherà a te e a un altro apio di clienti al massimo per preparare la tua carne.
Dopo aver predisposto la piastra che c’era tra me e lui, mi presenta la mia fetta di carne: avevo scelto il taglio maggiore disponibile optando per la qualità A5… la scelta dell’A5 era perché, se andava fatto una volta nella vita, doveva essere fatto bene, mentre il taglio da 120 grammi era perché avevo tanta fame e troppa paura di uscire col languorino non soddisfatto. Quando vado a Firenze per lavoro e ordino una fiorentina, il taglio minimo è da 800 grammi e quindi non riuscivo a capire come mi avrebbe saziato quella fetta di “carpaccio”!
La maestria nell’uso dei coltelli e delle spatole è stata ineccepibile: un moderno samurai sotto le cui lame la carne si divideva come per magia, senza opporre la minima resistenza. Seguendo le venature, ha separato la fetta in 3 blocchi spiegandomi, di volta in volta, quale fosse la caratteristica e quali condimenti ci si accostavano meglio, scegliendo tra il sale grosso, la radice di wasabi grattugiata, un mix di spezie, le immancabili fettine di aglio essiccato, il miso e la soia. Man mano che preparava i pezzi da cuocere tagliava via i grassetti in eccesso e li metteva a cuocere insieme in una sezione separata.
I “cubetti” di carne cotta ma non troppo venivano adagiati nel mio piatto, che era proprio a metà tra me e la piastra. Ogni pezzetto aveva le dimensioni giuste per essere preso con le bacchette e passato nel condimento per poi essere mangiato in un solo boccone. Alla fine, ha ripreso tutti i pezzetti di grasso che aveva tolto, che nel frattempo si erano abbrustoliti per bene, e ci ha cotto insieme dei germogli di soia: quello è stato una sorta di contorno che ha chiuso il pasto. Abbinato al piatto, non volendo esagerare con la gradazione alcolica, mi ha consigliato una Sapporo alla spina, non eccessivamente alcolica e molto speziata.
Veniamo a ciò che forse vi interessa di più, ovvero il sapore: mettere in bocca per la prima volta un cubetto di carne di Kobe porta con sé l'”effetto WOW“… avete presente quando ti blocchi per qualche istante e al contempo sgrani gli occhi e ti chiedi se anche altri, intorno a te, stanno provando la stessa sensazione?
Il fatto è che ti ritrovi a fare i conti con un sapore e una consistenza che non ti aspetti. Quando mi chiedono che sapore avesse e sono di cattivo umore, rispondo che “c’era della carne in quel burro”, ma la verità è che il grasso interno al muscolo, sciolto col calore della piastra, riesce ad ammorbidire la carne al punto da renderla tenera ed esaltarne la succosità (motivo per cui non andrebbe mai cotta troppo per non coprire il sapore originale).
Quei bocconi mi hanno insegnato un paio di cose:
- a volte incontri gusti completamente diversi da ciò che ti aspetti; non è mai un male se non ti focalizzi sul pensiero che il tuo cervello associa una certa pietanza a un certo range di gusti: quando provi qualcosa di diverso, che non ti aspetti, devi lasciarti trasportare dimenticando ciò che già sapevi;
- quando assapori qualcosa appartenente a una cultura diversa, devi farti guidare negli usi e nelle tradizioni, anche nel modo di mangiare quella pietanza, perché particolari come i bocconi, le bacchette, le salse o i tempi di preparazione fanno assolutamente parte dell’esperienza;
- può non piacerti il gusto di qualcosa, ma la qualità, quando la assapori, non puoi non riconoscerla;
- 120 grammi bastano e avanzano per quel tipo di carne: di più avrebbe rischiato di disgustare per la dolcezza del grasso sciolto;
- 180 euro per 120 grammi di bistecca (compresi antipastino, birra, dolcetto e caffè) sono comunque troppi, anche se non stai acquistando solo la carne ma tutto ciò che ha prodotto quella carne e il balletto del cuoco che deve per forza dedicarti del tempo in modo esclusivo per servirti il prodotto come si deve;
- ogni volta che in un ristorante italiano mi hanno venduto il manzo di Kobe, mi hanno preso in giro!
La domanda che mi fanno spesso è “Ma ne è valsa la pena?“. La mia risposta è la stessa che diede Piton a Silente: “Sempre!“.
Ne sarebbe valsa la pena che se non mi fosse piaciuto il gusto, perché la visita di Kobe si compone anche di questo: non sono andato a sfondarmi di gyoza a Chinatown perché volevo provare l’eccellenza locale e sono contento di averlo fatto. Lo rifarei? Probabilmente no, sia per il costo, che reputo leggermente al di sopra dell’effettivo valore, sia per il gusto, che per quanto buono non incontra la mia idea di carne che, comunque, deve dare una soddisfazione anche nella consistenza e nella quantità. Per dirla in un modo che non mi piace troppo perché mette in relazione due cose che non c’entrano nulla tra loro, addentare i bocconcini di wagyu non mi ha lasciato quella stessa soddisfazione di quando scarnifico l’osso della fiorentina dopo aver finito i miei 600-800 grammi di ciccia. Quindi, per me è stata un po’ come Parigi: bella ma non ci vivrei!
C’è da dire che la carne di Kobe si porta dietro gli onori (e anche gli oneri perché non le è consentito fare passi falsi nella qualità) del marchio che le dà una fama con cui deve costantemente fare i conti, ma che le permette di costare così tanto. Se avete letto il mio articolo su Takayama, sapete già che di lì a qualche giorno avrei assaggiato il manzo di Hida, la carne delle Alpi Giapponesi, più economica e meno grassa, ma per i miei gusti più buona… lo so che dopo questa frase brucerò all’inferno, ma mi avvalgo dell’attenuante per cui De gustibus non est disputandum.
Se volessi saperne di più sulla cucina giapponese, non perderti l’apposita pagina in cui ha un posto d’onore anche il wagyu!


13 comments
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