L’angolo degli Otaku
Dillo con i Kanji
I kanji che si utilizzano per scrivere Miyajima sono due:
宮 島
宮 – Questo è “Miya” e vuol dire “palazzo”: può essere usato per indicare una grande abitazione, fino al palazzo imperiale ma, in casi come questo, indica più comunemente un tempio o un santuario shintoista.
島 – Questo è “Shima” e ha un’etimologia affascinante, secondo me: anche se il radicale, che si può riconoscere nella parte bassa è Yama (山) ovvero “montagna“, il significato di questo kanji è “Isola” perché dovete immaginare la suddetta montagna circondata da uccelli (la restane parte del kanji è Tori – 鳥 – ovvero “uccello“), come spesso avviene per le isolette in mezzo al mare.
Mettendo insieme le due immagini, Miyajima assume il significato di “isola del santuario” o, meglio ancora, “isola sacra“.
Perché “shima” si pronunci “jima”, per me è ancora un mistero: ho posto la domanda ma le risposte non mi hanno tolto i dubbi. Una guida sosteneva che è la pronuncia originale giapponese del kanji, mentre su un forum mi hanno risposto che si passa a “jima” quando c’è un altro sostantivo a definire l’isola (in questo caso, l’isola sarebbe “del santuario”, anche se la teoria cade quando si traduce in “isola sacra”).
Siccome ogni saggio riconosce il proprio limite, non ho indagato oltre e – come per altri luoghi del Giappone – ho deciso di adottare la pronuncia che sento all’altoparlante della fermata (in questo caso, del traghetto).
Il torii rosso che emerge dal mare!
L’isola di Miyajima risente della maledizione del “torii spettacolare e fotogenico che emerge dalle acque“, che di per sé non sarebbe neanche una brutta cosa, se non fosse stato trasformato in una bolgia di gente che fa foto da soli, con zia, poi solo zia, poi col cugino John, poi tutto il gruppo, con nonna e senza nonna… e tu aspetti, ma non troppo, perché mentre la marea si abbassa arriva il pullman del “Giro del Giappone in mezza giornata” che ti si piazza davanti in formazione da All Black!
Ma tu sei più furbo e hai prenotato un ryokan sull’isola pensando di poter salutare col gesto dell’ombrello il turismo di massa che riparte con l’ultimo traghetto… peccato che il turismo di massa sia più furbo di te e ha fatto lo stesso: te ne rendo conto quando, dopo aver percorso la strada buia al lume della tua torcia accompagnato da un cerbiatto e aver sistemato il cavalletto per il timelapse della tua vita, arriva il gruppo di 30 italiani in yukata che, al grido di “A Marioooo!” monopolizza il molo per la foto ricordo.
Scherzi a parte (ma non troppo), vediamo il contesto: di fronte alla splendida e toccante Hiroshima, nell’omonima baia, ci sono alcune isole dove l’antropizzazione e l’urbanizzazione indiscriminata non sono ancora arrivate. Una di queste è Itsukushima (厳島) in cui il secondo kanji (shima) vuol dire “isola”, mentre il primo dovrebbe rispondere alla traduzione di “rigoroso” (dando un senso di responsabilità e disciplina) ma anche a quella di “paterno” (attribuendo un senso di amore paterno e protezione). Dico “dovrebbe” perché non ho trovato troppi riferimenti in merito, dal momento che, sia in letteratura che sulle mappe, viene utilizzato il nome di Miyajima, ovvero “isola del santuario” (vedi il box a inizio pagina per i dettagli della traduzione).
Come nelle migliori definizioni ricorsive, mi corre l’obbligo di parlarvi del santuario che spinge il mondo a cambiare il nome del posto da Itsukushima in Miyajima: si tratta del Santuario di Itsukushima (e mi sa che da questo giro di nomi non ne usciamo), ovvero quello famosissimo con il tori rosso che, nei momenti di alta marea, sembra fluttuare sulle acque della baia. Ma basta questo sito, pur nominato patrimonio UNESCO dal 1996, a giustificare il viaggio in traghetto?
In effetti, oltre al tori, l’isola di Miyajima è considerata uno dei luoghi con gli scorci più belli di tutto il Giappone ed è visitata da centinaia di turisti tutto l’anno, complice il fatto che sia facilmente raggiungibile in 45 minuti dal Parco della Pace di Hiroshima con mezzi inclusi nel Japan Rail Pass, passando per la stazione di Miyajimaguchi. Chiaramente, se non hai il JRP, ti si aprono tante altre alternative a pagamento, anche più veloci… a meno che non ti faccia prendere dal momento “tranquilli, ci penso io!” come il sottoscritto che – per un solo, dannato, attimo – ha dimenticato l’efficienza giapponese e ha preso il trenino 7 minuti prima di quando indicato dall’app di viaggio pensando fosse lo stesso: ho scoperto troppo tardi che si trattava di un tram locale (oserei dire “dal percorso capillare”), lento quanto la capacità di reazione dei Lemmings!
Prima di imbarcarmi ho integrato in contanti una sorta di piccolissima tassa di soggiorno (anche il biglietto della traversata era già incluso nel JRP). Il traghetto dopo essere passato accanto al torii più fotografato del Giappone, ti lascerà al molo dove un cartello ti avvisa subito che incontrerai dei cervi: sono carini e coccolosi, ma restano pur sempre animali dotati di istinto animale e comportamenti animali… quindi stai attento quando ti getterai a fargli “pucci pucci” sotto il mento!
Non ero ancora stato a Nara, quindi questo è stato il primo impatto con i “cervi sacri” e giurerei che si va per affinità elettiva: quando uno i loro ti sceglie, ti accompagnerà fedelmente per le tue passeggiate, a patto di dargli ogni tanto uno dei suoi biscottini preferiti. Sul tema dell’esperienza mistica di avere un cervo al seguito, ti rimando al Diario di Viaggio presente in questa pagina.
Le radici buddiste
Come anticipato, l’isola di Miyajima presenta una natura tutta da scoprire, in armonia con il mare e la montagna.
Sul monte Misen c’è un’area panoramica (Mount Misen Observatory) a più di 500 metri di altezza, raggiungibile con un paio di ore di sentiero da cui si può godere una vista che abbraccia tutto il territorio.
Proprio il monte Misen fu il teatro della nascita della sacralità di questo luogo: si narra che il monaco buddista Kôbô Daishi, nel’806, dichiarò il monte come sito ascetico della setta buddista Shingon. Fu in questo modo che nacque la tradizione per cui sull’isola nessuno poteva nascere o morire, in quanto la setta cercava di evitare il kegare (l’impurità religiosa) nel tentativo di mantenersi perfettamente pura. In realtà è accertato che il rigore durò fino al Periodo Meiji, nel XIX secolo: non so dirvi se sia effettivamente ancora così.
Testimone di questo tempo è il tempio buddista Daisho-In, situato ai piedi del monte, tra gli alberi. Questa collocazione nasconde facilmente tantissime statue e lampioni che si scoprono man mano che ci si addentra nei percorsi del tempio attraverso la natura. Si contano più di 500 statue, tutte diverse e molte con cappellini di lana.
La battaglia di Miyajima
Oltre che un luogo sacro, l’isola di Miyajima fu il teatro di un’importante battaglia avvenuta nel 1555 e che prese proprio il nome di Battaglia di Miyajima (Itsukushima Kassen).
Siamo nel periodo Sengoku e il potere sul Chūgoku (una delle 8 regioni del Giappone) è detenuto dal clan Ōuchi. Grazie a questo scontro decisivo, Mōri Motonari riuscì a prendere il controllo della regione sconfiggendo il clan Ōuchi.
Dal momento che nessuna morte era permessa sul territorio sacro, seguì un’intensa purificazione di tutta l’isola per pulire il santuario che si era macchiato del sangue dei soldati.
Per avere un’idea più ampia del susseguirsi dei fatti storici e del ruolo dei personaggi citati in queste pagine, c’è un apposito articolo che tratta la storia completa del Giappone!
L’isola sacra
I giapponesi tengono molto a quest’isola, che considerano sacra a tutti gli effetti: per visitarla è stata istituita una tassa di 100 Yen che confluisce interamente in un fondo per la salvaguardia dell’isola stessa.
Inoltre, la tradizione vuole che sull’isola non si possa né nascere, né morire, quindi sia le donne in attesa vicine al parto, sia le persone molto anziane o in precarie condizioni di salute, si allontanano spontaneamente trasferendosi sull’altra sponda.
Se il tempo di permanenza te lo permette, vale la pena esplorare la natura percorrendo i sentieri dell’isola o visitando i suoi parchi: in questo caso, come non mi stancherò mai di ripetere, porta con te le scarpe adatte… la natura non sa che sei in vacanza e va esplorata in sicurezza!
Se ti fermi per la notte, nella maggior parte dei casi ti verranno forniti pigiama e yukata (specialmente se alloggi in un ryokan), ma non scordare di mettere in valigia una torcia: essendo un’isola-santuario non è prevista la movida notturna e, dopo il tramonto, l’illuminazione è tenue e limitata per lo più ai lampioni in pietra della costa, quindi ti capiterà di dover percorrere tratti di strada al buio. Per contro, vivrai un’emozione fuori dal tempo che sarà difficile anche solo raccontare.
Per finire, così come accade a Nara, sull’isola girano liberi dei cervi, considerati animali sacri e messaggeri degli dei. Sono molto abili a rubarti il cibo, ma non disdegnano un abbraccio o una carezza amorevole. Se poi scatterà l’affinità elettiva, avrai un compagno di viaggio per le tue passeggiate alla scoperta degli splendidi scorci naturalistici dell’isola!
Itsukushima Jinja (厳島神社): né nascere, né morire
Il tempio shintoista di Itsukushima risale al VI secolo (593 d.C.), anche se ha la forma attuale dal XII secolo (1168) poiché sia per tradizione popolare, sia per la forza del mare, fu distrutto e ricostruito nel corso della sua storia.
Si affaccia sul mare e le sue forme, rispettose del paesaggio circostante, sono un chiaro esempio di come i giapponesi abbiano sempre avuto un occhio di riguardo a integrare l’arte con la natura completandola in modo armonico anziché deturparla con costruzioni fuori contesto.
Il resto del tempio è sospeso su palafitte, in maniera tale da restare all’asciutto anche con l’acqua alta. Il contrasto tra il rosso predominante, le lanterne che ondeggiano al vento e il blu del mare che fa da cornice è senza dubbio spettacolare! Basta angolare la macchina fotografica con maestria in modo tale da non prendere il gruppo vacanze che sta ancora decidendo chi sta in prima fila e chi dietro per la foto!
Nell’orario di visita è possibile camminare sui suoi pontili, ma in qualsiasi momento del giorno o della notte potrai godere di questo spettacolo per gli occhi e della pace di questo luogo fuori dal tempo.
Le luci delle abitazioni dall’altro lato del mare, in contrasto con la flebile illuminazione delle lanterne in pietra del santuario, mi hanno dato la sensazione che, per una volta, fossi sulla riva giusta della vita.
In realtà, il colore rosso della struttura non è stato usato solo per un effetto scenografico: la tradizione vuole che il rosso scacci gli spiriti maligni dal tempio. Inoltre, credo sia una vernice anti-corrosione, visto che il legno – che deve fronteggiare per tutto l’anno l’aria marina e la salsedine – sembra impeccabile.
Il santuario è dedicato alle 3 dee Munakata:
- la dea protettrice del mare (ovviamente) e degli incidenti stradali,
- la dea della buona sorte,
- la dea del talento.
Si articola in più padiglioni collegati da lunghi corridoi e passerelle, per una lunghezza complessiva di circa 300 metri. Se ti svegli presto vedrai i monaci che, con tanta pazienza, lavano tutta la superficie calpestabile prima dell’arrivo dei visitatori. Quando ti dirigi in questo luogo, non dare per scontato che sia sempre stato possibile: una delle ricostruzioni del santuario fu conseguenza di quando i monaci smisero di considerare gli uomini degni di calpestare il suolo sacro e distrussero tutto. Per fortuna, questa concezione cambiò e oggi siamo ammessi anche noi visitatori, ma questo privilegio ci sia di monito nel portare sempre rispetto.
Per farti capire quanto sia forte la devozione per questo luogo, è tradizione che
sull’isola non si possa né nascere, né morire,
quindi sia le donne in attesa vicine al parto, sia le persone molto anziane o in precarie condizioni di salute, si allontanano spontaneamente trasferendosi sull’altra sponda.
Parlando di contaminazione culturale, invece, è facile notare che qualcosa con lo stile non torni: l’edificio templare è circondato da edifici ausiliari di fattura sia shintoista, sia buddista: tipi diversi di edifici, infatti, furono costruiti a secoli di distanza tra loro.
Vagando con lo sguardo, potrai notare una pagoda a cinque piani, una pagoda a due piani e un teatro Nō.
Come Pazu che passeggia per Laputa
Diario di Viaggio
Una delle scelte più indovinate che ho fatto per questo viaggio è stato quello di concedermi di pernottare in un ryokan sull’isola. Fino a qualche momento prima sono stato scettico e ho viaggiato pensando di aver fatto una spesa inutile: gli alloggi a Miyajima non sono economici, forse perché non ce ne sono molti, e mi ripetevo che, se avessi barattato la stanza con una a Hiroshima, avrei speso meno e mi sarei goduto un po’ di vita della città.
Per fortuna non sempre mi ascolto! Stavolta mi sono affidato all’istinto e ho mantenuto la prenotazione sull’isola dove non si nasce e non si muore.
Preso possesso della stanza del ryokan, andai subito a testare l’onsen, ovvero la vasca privata (non potevo usare quella comune per via dei tatuaggi) con acqua termale che sgorga dal terreno a una temperatura da spellamento immediato… quel tanto che bastava a buttar giù la pressione e a chiedermi se valesse la pena rivestirsi per uscire. Preso coraggio, come un’aragosta che esce dal bollitore, mi decisi ad affrontare le strade dell’isola. Vista l’atmosfera molto intima e silenziosa, decisi addirittura di farlo in stile giapponese, ovvero indossando lo yukata in cotone che mi era stato dato in dotazione con la stanza. Evitai però il paio di zoccoli abbinati, che non avrei mai messo neanche come penitenza per una scommessa persa.

Yukata outfit!
Per fortuna, da bravo scout, avevo nello zaino una torcia tascabile: le strade, oltre che deserte, erano totalmente buie. In questi momenti mi ricordo sempre gli insegnamenti dei film e mi immagino una voce guida che grida “Segui la luceeee! Vai verso la luceee!”, e così feci! Camminando verso la spiaggia (se sei su un’isola e cammini in direzione del mare, prima o poi ci arrivi).
L’illuminazione fioca e suggestiva era data da una fila interminabile di lanterne in pietra disposte lungo la costa. Il rumore dei mie sandali sulla sabbia era in contrasto col vociare che arrivava dalle barche dei tour che partivano dalla costa opposta, dove invece le luci abbagliavano la vista. Dopo un po’, gli occhi si abituarono e non ebbi più bisogno neanche della torcia.
Passeggiare al buio in yucata come se fossi l’ultimo uomo sulla terra, con le fronde degli alberi che bisbigliano intorno a te, le onde del mare che schiaffeggiavano dolcemente le palafitte del tempio e lo splendore del grande tori rosso che apparve all’improvviso nel mezzo della baia, mi fecero immaginare di essere in uno di quegli scenari alla Miyazaki: se fosse uscita una vecchina bassa e in carne col nasone butterato oppure una figura tutta nera con una maschera bianca che fluttuava nell’aria… forse forse non mi sarei sconvolto troppo.
Mi sentivo come Pazu quando scopre che Laputa esiste davvero. E come Pazu, avevo anch’io, lì con me, la mia Sheeta. Neanche a farlo apposta, la melodia di “Laputa, castello nel cielo” è stata per anni la suoneria personalizzata che avevo assegnato alle telefonate di Rosy e forse non era un caso che la mente andò proprio a quella pellicola.
Tutti quei pensieri che affioravano senza controllo erano davvero spiazzanti! Che il tori rosso, le statue del bosco e i cerbiatti fossero davvero un modo per entrare in comunicazione con gli spiriti?
Già, perché non ti ho detto che da solo ci restai poco: a farmi prendere un colpo furono due occhi luminosi spuntati dal nulla: uno dei cerbiatti dell’isola, i veri guardiani di questo luogo, cominciò a camminarmi accanto, forse per affinità elettiva o forse perché avevo ancora nello zainetto uno dei suoi biscotti preferiti.
Non so chi dei due seguisse l’altro, ma insieme arrivammo alla riva di fronte al grande torii rosso.
In quell’atmosfera surreale, il mio amico cerbiatto restò lì a guardarmi mentre scattavo foto e facevo video. Mi congedai da lui, con un doveroso inchino e una carezza, solo perché lo stomaco cominciò a ricordarmi che dalla mattina avevo trangugiato solo un okonomiyaki (per un pranzo veloce al Parco della Pace) e un’ostrica (come spuntino, appena messo piede sull’isola).
Andai verso Omotesandō, la “shopping street” di Miyajima, sperando di trovare un ristorante di cucina tipica… ma se normalmente il Giappone “chiude presto”, su quest’isola calano proprio le saracinesche e alle 22.00 ero già fuori tempo massimo. Sì, lo so che era prevedibile, ma la meraviglia delle esperienze che stavo vivendo avevano avuto la meglio sulla razionalità e i famosi “cinque minuti e poi vado” si erano protratti più del dovuto.
Arrivato quasi all’imbarco dei traghetti, vidi un tizio che stava accatastando le sedie per chiudere un izakaya. Con la faccia tosta del turista sprovveduto provai a chiedergli se fosse ancora possibile mangiare qualcosa. Lui rise e fece un lungo discorso… di cui non capii assolutamente nulla. Però, con un sorriso, mi fece segno di entrare e mi liberò un tavolino.
Dal fatto che si mise un grembiule e si infilò in cucina senza chiedermi nulla, capii che “ordinare” non era tra le opzioni disponibili e quindi mi affidai alla provvidenza, confidando che si ricordasse i miei gusti. Dopo poco mi arrivò un cestino di gamberoni giganti in tempura e un boccale di birra ghiacciata. Che potessi gradire la birra ghiacciata era scontato, ma la bontà di quei gamberoni me la sogno ancora! Anche stavolta, vivere con fiducia l’avventura mi aveva riservato un’esperienza indimenticabile. Fatto il bis di birra e pagato un migliaio di yen (appena 6 euro) mi incamminai per tornare al ryokan, anche perché alle 23.00 avrebbe chiuso le porte. Passai nuovamente per il molo del santuario, dove intanto i pochi visitatori ancora svegli conversavano, facevano foto o coccolavano i cerbiatti. Il destino mise sulla mia strada una vending machine che distribuiva dolci: decisi di chiudere la giornata con un momiji manju, una specie di biscotto a forma di foglia d’acero ripieno di pasta di fagioli rossi. Un paio di morsi in tutto, ma mi sembrarono così buoni…
Credevo che non mi sarei mai svegliato in orario per prendere il traghetto di metà mattina, così misi 5 sveglie a distanza di 5 minuti l’una dall’altra… non ce ne fu bisogno, perché alle 5.00 ero già sveglio e guardavo il soffitto in carta di riso dal mio futon. La colazione era alle 7.30, quindi decisi di imbracciare la reflex e partire per la montagna alla scoperta del territorio. Andai dapprima verso il complesso buddhista del Daishoin, verso la montagna. Gli edifici erano ancora chiuso, ma il cancelletto d’ingresso era aperto e quindi feci una bella passeggiata tra i sentieri e le scalinate, perennemente scrutato da piccole statue di omini in pietra con i cappellini rossi di lana. Ero incerto se trovarlo emozionante o terrificante!
Mentre stavo facendo le riprese, partì la musichetta tutto intorno a me! Dapprima pensai che era l’allarme del tempio e che di lì a poco una cinquantina di monaci ninja mi avrebbero catturato… e invece mi resi conto che la musichetta coinvolgeva tutta l’isola, come fosse una sigla d’apertura per un nuovo giorno. Non sapevo ancora che in Giappone, in certi orari e in certi luoghi, ci fossero musichette diffuse sia per segnalare gli orari in cui mediamente inizia e finisce la giornata lavorativa, sia per verificare il corretto funzionamento degli altoparlanti che verranno usati per avvisare la popolazione di eventuali calamità naturali, come un terremoto o uno tsunami. Prova a immaginare, quindi, la scena comica di me che cammino tra gli ewok di pietra e parte un jingle per tutta l’isola!
Scoperto un po’ di sentiero su per la montagna, quel tanto che bastava a scoprire qualche tempietto e fare qualche foto panoramica, decido di tornare verso il ryokan, ma ad aspettarmi all’imbocco del sentiero c’era (indovina un po’…) un cerbiatto!
Come quello della sera prima – sempre che non fosse lui (o lei) – comincia a camminarmi accanto e nel silenzio del mattino, oltre ai miei passi, ora riecheggiano anche i suoi zoccoli. Arrivato al bivio del ryokan, faccio per salutarlo, ma lui gira a sinistra e continua a camminare oltre l’acquario pubblico, da cui, tra l’altro, arrivano strani versi. Stavolta decido di seguirlo io.
Camminiamo una decina di minuti finché si infila in un sentierino che porta a una radura strapiena di altri cerbiatti, tutti tutti radunati attorno a un piccolo tempio in legno. Ero arrivato a Omoto Park e ringraziai il mio amico perché mi aveva fatto scoprire uno scorcio pazzesco che altrimenti non mi sarei sognato di cercare.
Mi misi a fare qualche foto, a leggere la storia del santuario, montai il treppiede per girare un piccolo video che avrei inserito nei ricordi della vacanza… e feci tutto con il cerbiatto sempre accanto a me, ovunque mi spostassi.
Quando decido di tornare al ryokan per una meritata doccia e una colazione in stile giapponese, saluto il cerbiatto che, per tutto il tempo, mi aveva fatto compagnia.
Per lo shintoismo, tutto passa attraverso la natura e gli dei (o “kami“) possono essere elementi naturali o persone defunte che continuano a proteggerci. In quest’ultima accezione, spero di non essere scomunicato se ammetto di averci visto una similitudine con la “comunione dei santi” del cattolicesimo. Lo dico perché da quando Rosy non c’è più, capita che ci siano momenti in cui la senta accanto a me, anche se in un modo diverso.
Era accaduto anche all’inizio di quel giorno, grazie alla vicinanza di un cerbiatto, che qui sarebbe considerato un messaggero degli dei e voce degli spiriti.
Solo a colazione realizzai che quella era la mattina del 22.. Dal 22 dicembre del 2012, giorno della sua morte, il 22 di ogni mese è un giorno in cui cerco di dedicare un pensiero a Rosy.
Mi piace pensare che quella mattina sia stata lei ad averlo dedicato a me.
